18 Dicembre 2017
Un contributo di Giuliano Tallone al dibattito sul Futuro dei Verdi con all’interno importanti considerazioni sui temi presentati all’incontro “Patto per il clima” dello scorso 16 dicembre.
di Giuliano Tallone
Ho partecipato al convegno “Patto per il Clima” sabato scorso e al di là degli aspetti politici ciò che ho trovato estremamente interessante è stata la convergenza programmatica di moltissimi degli interventi, anche di alto livello, che si sono susseguiti nella giornata. Ho trovato non scontato che questa convergenza fosse forte, anche da parte di persone che hanno in questa convulsa fase pre-elettorale posizioni notevolmente diverse dal punto di vista del posizionamento politico, ma che di fatto hanno espresso le stesse esigenze da un punto di vista del modello di società che hanno in mente, e delle scelte di governo che è necessario effettuare per costruirla.
Penso che sia necessario in questo periodo di confusione e di distacco delle persone dalla politica istituzionale dei partiti riportare la discussione non tanto sulle alleanze o sulle candidature, ma su ciò che è necessario fare per evitare che in uno scenario medio-breve, diciamo nel prossimo decennio, il mondo si avvii su di una china irreparabile di cambiamenti epocali, di disastri ambientali, di guerre, di divisioni, di aumento esponenziale della forbice tra ricchi e poveri su tutto il pianeta ed anche nella nostra Italia. E penso sia necessario alzare lo sguardo dai battibecchi tattici – pure inevitabili – al riflettere su come costruire una prospettiva e una proposta che risponda alle grandi questioni del nostro tempo.
Nella discussione gli interventi che più mi hanno colpito sono stati quelli del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, quello del Prof. Enrico Giovannini e quello di Edoardo Zanchini di Legambiente.
Gentiloni nel parlare ad una platea ecologista ha aperto, fin dove possibile per il ruolo istituzionale che ricopre, un ragionamento nel quale ha fatto tesoro della sua storia ambientalista e di giornalista esperto di questi temi come già Direttore di La Nuova Ecologia. Oltre ad una citazione non scontata di Alexander Langer, che ha fatto comprendere la conoscenza profonda di questi temi ma anche una vicinanza vera con le idee del grande ambientalista, Gentiloni ha attirato l’attenzione sul tema del ruolo internazionale dell’Italia nel bacino del Mediterraneo e, soprattutto, verso il continente africano riportando l’esempio del prosciugamento del Lago Chad (che spesso uso anche io a lezione con i miei studenti) come chiave di lettura delle crisi di quel continente, che sono tra l’altro alla base del fenomeno delle migrazioni oggi al centro del dibattito elettorale. Penso di poter dire che, al di là dei vincoli che chi ricopre un incarico di tale livello necessariamente deve gestire, in questo momento abbiamo il Presidente del Consiglio che ha più chiare le questioni globali della nostra epoca, lette in una chiave ambientalista.
Ho trovato poi estremamente interessante l’intervento di Enrico Giovannini, presidente di Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (qui il sito ASVIS), che ha portato l’invito ai partecipanti alla giornata a lavorare nella costruzione dei programmi, anche politici, all’interno del quadro dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile da essa delineati e dei 169 target nei quali essi sono declinati. L’invito non è banale, e ci richiama ad inserire l’azione politica e di governo di una nazione importante come l’Italia all’interno di un quadro di complessi disegni internazionali, che possono essere raggiunti solo se tutte le nazioni e tutti i soggetti economici e sociali si muoveranno nella stessa direzione. Giovannini è stato molto chiaro nel segnalare che, anche come ci dimostrano recenti studi di scenario, se questo non avverrà ben difficilmente gli obiettivi di sviluppo sostenibile, e quelli sul clima, verranno raggiunti. Il rischio che noi tutti si stia già perdendo la guerra sul clima, come sottolineato con forza dal Presidente francese Macron con l’One Planet Summit (di cui vi abbiamo parlato qui), è grave.
Mi preme sottolineare il senso di urgenza che è emerso da questo e da altri interventi, la nostra è certamente l’ultima generazione in grado di evitare conseguenze drammatiche sul clima, sulla biodiversità e gli ecosistemi. E sarà in grado di evitarle solo con una azione molto più intensa e determinata, e coerente, da parte di tutti i governi. Questo non è catastrofismo ambientalista, oggi si può dire che è realismo preoccupato.
Ciò di cui abbiamo bisogno è che qualunque governo avremo dopo marzo 2018 sia ben cosciente di questo scenario. Purtroppo al momento questa prospettiva non pare molto evidente, con un centrodestra al momento refrattario a questi temi e purtroppo tentato dalle sirene Trumpiane, un M5S nominalmente ambientalista ma che fatica a tradurre questo “anelito” iniziale che molto aveva fatto sperare in concreti disegni di programmi e di scenari di governo, un PD spesso drammaticamente lontano da questi temi (con importanti eccezioni come ho detto sopra) e una sinistra ancora troppo industrialista e marxista a livello culturale, che non ha fatto ancora un definitivo salto culturale verso la scelta della necessità di una transizione ecologica del nostro sistema. Quest’ultimo punto è stato approfondito qualche tempo fa da Francesco Ferrante e Roberto della Seta in un interessante articolo su Huffpost che metteva di fronte l’approccio programmatico di “Possibile” e di “Sinistra Italiana”, oggi uniti in un’unica forza politica con esiti su questi aspetti che saranno tutti da approfondire (Qui l’articolo in questione).
Allora, aprire un dibattito esplicito nel centrosinistra, ma anche in tutto il quadro politico, sulla necessità di un “Green new deal”, e di una forte adesione al programma di cambiamento proposto dalle Nazioni Unite (non dai Verdi) sui 17 Obiettivi dello sviluppo sostenibile, che richiedono come esplicitamente richiesto dallo stesso alto consesso internazionale “un cambiamento del modello di sviluppo”, non è solo una questione di tattica elettorale alla luce del “Rosatellum”, ma è una sacrosanta necessità. Come è stato rilevato anche nel dibattito di sabato, questa visione al momento è l’unica proposta di futuro concreta sul tavolo, cadute le ideologie.
E molto interessante ho anche trovato l’intervento di Edoardo Zanchini, Vicepresidente di Legambiente, che ha segnalato con forza l’esigenza non solo di proporre un nuovo modello di sviluppo ma soprattutto di essere in grado di raccontarlo e farlo comprendere ai cittadini e ai governanti, trovando delle forme nuove di comunicazione e di condivisione.
Da questo punto di vista i 7 punti programmatici condivisi dal PD e dai Verdi certamente non sono un risultato definitivo, ma un primo punto su cui lavorare: sottolineo comunque che, sia pure con una scelta evidentemente giustificata da motivazioni soprattutto tattiche legate alla legge elettorale, è la prima volta che il PD e Renzi, dopo lo “strappo” con buona parte degli Ecodem prima delle scorse elezioni politiche e diverse pessime politiche adottate su molti fronti ambientali nel corso degli ultimi governi, si riavvicina ad impegni che vadano nell’ottica di una proposta più ecologista. Che questo non sia sufficiente è chiaro a tutti, ma nell’attuale scenario politico, salvo possibili positive sorprese nel caso di un futuro governo “Cinque Stelle”, che però al momento sembrano realisticamente un salto nel buio in assenza di qualunque proposta programmatica esplicita, questo pare l’unico possibile appiglio su cui iniziare a costruire una prospettiva di governo nella direzione di una transizione ecologica come auspicato dalle Nazioni Unite.
Al di là degli esiti concreti elettorali, c’è una assoluta necessità di discutere di questi temi e non di meccanismi di legge elettorale, collegi, candidature, alleanze e scissioni, tutte questioni che ormai all’elettorato e ai cittadini interessano ben poco, come dimostrato dall’elevatissima, e crescente, quota di astensionismo presente in tutte le ultime contese nell’urna. Se l’attuale classe politica – peraltro anagraficamente ormai ben lontana dalle nuove generazioni – non comprenderà questo, rischiamo di avere di fronte scenari anche veramente preoccupanti nello scenario nazionale.
Vorrei chiudere questo ragionamento su un aspetto che sarà senz’altro centrale nella ormai aperta campagna elettorale, quello dell’immigrazione e delle discussioni conseguenti (Ius Soli, blocco delle frontiere, rapporti con l’Europa).
Di fronte al crescente quadro di crisi in Africa e Medio Oriente è inevitabile, come rimarcato da tutti gli osservatori indipendenti, che la pressione migratoria sull’Europa, e al suo interno soprattutto sull’Italia che volente o nolente è al centro di questo fenomeno storico, e la massa di persone che intendono spostarsi geograficamente verso il nostro continente sono – e saranno – in aumento costante. Siccità, crisi regionali e guerre, mancato rilancio delle economie del continente africano, lo sviluppo dell’estremismo islamico che rischia di essere per ampie aree un elemento unificante sono tutti fattori che non faranno che aggravare nei prossimi anni e decenni questo già enorme fenomeno.
La risposta di alcune forze politiche italiane soprattutto di destra (ma anche la posizione in merito del M5S è, sia pure se ancora incerta e poco definita, piuttosto ambigua) è quella tendenzialmente nazionalista e “sovranista”: chiusura delle frontiere. A parte la difficoltà concreta di realizzare tale proposito in una nazione con 3.000 chilometri di coste e le conseguenze, drammatiche, sul piano umanitario, questa risposta assume il principio che la questione sia principalmente – o esclusivamente – di ordine pubblico, e di polizia interna e delle frontiere. È evidente che questo tipo di approccio dà una risposta prossima, immediata, alle paure dei cittadini che percepiscono come crescente l’insicurezza delle città dovuta all’aumentare di masse di persone che non vengono viste come profughi in cerca della sopravvivenza (come in stragrande maggioranza sono) ma come un pericolo per la vita quotidiana. Risposta totalmente insufficiente ma attraente elettoralmente.
Bisogna riconoscere come l’Europa faccia fatica a farsi carico di questa questione, che non è certamente solo italiana ma investe tutta l’Unione, con una risposta anche sul piano dell’emergenza che possa dirsi adeguata. Troppi sono i paesi che hanno già effettuato scelte di isolamento e chiusura, e quelli che “se ne lavano le mani”, rifiutando una gestione condivisa del problema o mettendo un “chip” economico per sostenere l’immane sforzo che sta facendo il nostro paese (peraltro anche con alcune zone d’ombra e certamente con molte contraddizioni e tensioni interne) per evitare l’esplosione di una crisi umanitaria che peraltro in parte si è già realizzata.
Al momento sono purtroppo poco efficaci anche gli appelli di Papa Francesco (qui per approfondire) , e le risposte insufficienti dell’Unione Europea inevitabilmente ricadranno sugli esiti elettorali italiani, in quanto è facile pronostico pensare che i cittadini che percepiscono il fenomeno come una minaccia risponderanno in modo difensivo, aggravando complessivamente la situazione della gestione dell’emergenza.
Bisogna riconoscere che la risposta “umanitaria” è un argomento insufficiente per la maggior parte dei cittadini, di fronte a quanto sottolineato. È indispensabile a questo punto riuscire a costruire una proposta politica su questa importantissima questione che unisca la risposta immediata e a breve termine ad una visione di prospettiva e di lungo termine comprensibile a tutti i cittadini, e che in questo modo possa diventare condivisibile.
Le operazioni di salvataggio in mare, la gestione dell’immigrazione dei profughi in Italia e in Europa, i centri di accoglienza, la gestione della presenza dei nuovi arrivati nelle città e nei centri chiamati ad accoglierli, le inevitabili tensioni correlate come gli scontri per la casa, la competizione per il lavoro tra italiani e immigrati, che spesso sono al centro della propaganda sovranista non possono essere affrontati solo con la tensione etica di Papa Francesco o della Presidente della Camera Boldrini, che non a caso sono al centro per questo di un fuoco di fila nella comunicazione, spesso fino all’insulto sui social.
Ci vuole un progetto che renda immediato la comprensione a tutti di quale sia il disegno, quale il progetto che si propone in opposizione al “No immigrazione”, e spesso “No immigrati” di Salvini. Non si può negare che un timore diffuso di “progetto di islamizzazione” per l’Italia esista, come dimostrano anche recenti sondaggi che ci riportano che ormai solo una minoranza della popolazione italiana è favorevole a un diffuso atteggiamento di accoglienza.
Quello che va sviluppata è l’idea che solo affrontando la questione nel medio-lungo termine, eliminando alla radice le cause della migrazione, si potranno evitare i conflitti interni ed esterni al nostro paese che allo stato delle cose sembrano invece inevitabili. Le proposte e le visioni di Papa Francesco, delle Nazioni Unite con i 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile di Agenda 2030, che non a caso vengono definiti “indivisibili” e mettono insieme clima, biodiversità terrestre e marina con povertà, fame, salute ed istruzione, vanno declinati in un semplice messaggio comprensibile da tutti, rispetto a come gestire oggi e per il futuro il fenomeno dell’immigrazione.
Allora, forse il nostro paese dovrebbe lanciare, anche con gli altri soggetti europei che stanno decidendo posizioni forti sulle politiche del clima come la Francia di Macron, un grande progetto di ricostruzione di un tessuto di economia, democrazia, diritti in Africa e nel Medio Oriente, i “grandi dimenticati” del nostro tempo se non come scenario delle tensioni e dei conflitti internazionali, o come “mucche da mungere” di risorse ambientali come gas, petrolio e materie prime. L’Italia dovrebbe rafforzare la sua politica estera perché l’emigrazione in Italia in realtà come tutti abbiamo compreso si combatte garantendo governi solidi (e possibilmente democratici) in Libia, Corno d’Africa, Niger, Ciad, Nigeria. Diminuire la pressione migratoria sull’Italia sarà possibile solo con una coesione e cooperazione europea ed una politica estera – e magari militare – dell’Unione coordinata e coesa, non con un isolamento nazionale che sarà indifendibile, per questioni di scala.
In campagna elettorale si dovrebbe lanciare un grande “Piano Marshall per l’Africa e il Medio Oriente”, a forte iniziativa europea, con il contributo sostanziale di paesi come gli Stati Uniti d’America, la Russia, la Cina, che oggi perseguono ben altre tattiche in quelle aree geografiche.
L’obiettivo comune di questo Piano nella logica degli Obiettivi ONU dell’Agenda 2030 dovrebbe essere ricostruire insieme ai governi e ai popoli Africani e del Medio Oriente, nello scenario degli Accordi di Parigi che forniscono anche alcuni potenziali strumenti che certamente andranno sviluppati, come il fondo da 100 miliardi di dollari per il clima, economie locali più forte, sostenibili e tecnologiche (oggi in gran parte del continente africano arriva a malapena il web), più democratiche e condivise, che tolgano a milioni di persone la necessità di emigrare, a costo di grandissimi pericoli, sacrifici e fatiche. La battuta polemica di Salvini “lasciamoli in Africa” contiene un nucleo di verità, che ha probabilmente il senso esattamente opposto di quanto intende: costruiamo condizioni di vita che permettano agli Africani di non desiderare di lasciare le proprie case, ma che siano realmente concorrenziali con la scelta della migrazione. Utopia? Forse, ma se queste prospettive non verranno costruite con lo sforzo di tutti abituiamoci a un futuro più difficile, più conflittuale, più povero non solo per coloro che sono costretti ad emigrare, come lo erano gli italiani della prima parte del ‘900, ma per tutti noi.
Queste elezioni, il Rosatellum, il PD, le alleanze, non esauriscono il futuro. Le elezioni di marzo 2018 saranno l’ennesimo passaggio, non un punto finale. Dobbiamo lavorare, tutti, per costruire il futuro.
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