Con un articolo apparso l’8 settembre 2017, Paolo Galletti si è chiesto: Perché i Verdi non sono forti anche in Italia? Pochi giorni dopo, il 17 settembre, Il manifesto pubblicava una riflessione di Paolo Cento dal titolo Ma davvero non c’è verde a sinistra?
A questo proposito, ricordo che l’anno scorso, durante la campagna elettorale che ha portato all’elezione al Campidoglio di Virginia Raggi, mi capitò di parlare con un attivista del Partito Democratico, che la pensava più o meno così: “oggi dell’ambiente ce ne occupiamo pure noi, non ha più senso un partito ambientalista”.
Lasciamo da parte il modo in cui il Partito Democratico sino ad oggi si è occupato di ambiente: una prima possibile risposta alle due domande iniziali è proprio quella. Se i Verdi italiani sono o continueranno ad essere “il partito dell’ambiente”, ben presto raggiungeranno il dodo o la tigre dai denti a sciabola nel triste club delle specie estinte.
Gli anni in cui la questione ambientale rappresentava una novità nel dibattito politico italiano appartengono ormai ad un passato lontano: il ruolo dei Verdi come partito di rottura è finito, perché oggi, a differenza che nel 1980, quasi tutti i movimenti politici si sono dotati di una propria agenda ambientale. Che poi la seguano davvero è tutto da dimostrare, ma non è questo il punto.
Anche l’economia di mercato è oggi, in qualche misura, verde. L’etichetta green – dalla benzina ai prodotti alimentari, dalle start up ai cosmetici – vende.
I Verdi italiani, forse, non avevano messo in conto una simile, non prevedibile, “vittoria”. Né potevano immaginare che, ad essa, si sarebbe accompagnata una banalizzazione e frammentazione del messaggio ecologista: come acutamente osserva Galletti, il “venir meno di una cultura ecologista olistica e non settoriale”.
I singoli cittadini-consumatori, oggi, possono essere vegani e ignorare beatamente che l’agricoltura intensiva della quinoa si è rivelata deleteria per gli ecosistemi e per le popolazioni del Perù o della Bolivia. Per quanto riguarda il mondo politico, poi, molti esponenti dei Verdi italiani, assecondando questo processo di spacchettamento del messaggio ecologista, si sono col tempo adattati a rappresentare la “pennellata di verde” all’interno di altri partiti (a volte, va detto anche questo, per mero opportunismo).
Tutto sommato, anche il chiedersi sinceramente quale sia lo spazio “a sinistra” dei Verdi – come fa Cento – corrisponde ancora all’idea che il compito degli ecologisti, in politica, sia quello di intervenire nel dibattito solo come portatori di uno specifico interesse: la tutela dell’ambiente e della salute. Quasi che i Verdi fossero il “Ministero dell’ambiente” della politica italiana, chiamati ad esprimere un nullaosta ambientale ogniqualvolta si affrontino altre e più importanti questioni – lavoro, economia, politica estera, riforma delle istituzioni – per poi tornare ad inabissarsi.
Non credo però che il compito di noi Verdi sia questo, e non credo quindi che sia giunto il momento di biodegradarci (1) politicamente. Credo invece che solo il pensiero ecologista sia oggi in grado di offrire una risposta globale ai problemi della nostra società.
Va quindi del tutto rovesciato l’assunto che ho citato all’inizio – non serve più un partito ecologista, visto che ora, dell’ambiente, se ne occupano anche gli altri partiti – e viceversa va affermato che, piuttosto, non servono più (o sono superati, recessivi, limitati) gli altri partiti, perché è solo attraverso l’ecologismo e l’ambientalismo che si possono fornire risposte coerenti a tutte le altre questioni.
E’ necessario ribadire con forza che la questione ecologica, la conversione ecologica, non è uno dei temi, ma è il tema. Il problema fondamentale della nostra epoca, in cui – per la prima volta nella Storia – la nostra specie è arrivata a mettere a rischio l’equilibrio non di un singolo ecosistema o di una singola area geografica o politica, ma dell’intero pianeta. Uno scenario che i pensatori liberali, radicali, cattolici, socialisti o comunisti degli ultimi due secoli non potevano neppure lontanamente immaginare.
Ed è qui, però, che i Verdi italiani sono chiamati a compiere un primo salto culturale. Bisogna avere ben chiaro che la “tutela dell’ambiente” non può essere più considerato l’unico o il principale interesse di cui siamo portatori. L’ambiente non è l’oggetto principale della nostra azione politica, ma la nostra prospettiva visuale, il nostro criterio organizzativo dell’agire.
Per spiegare cosa penso significhi essere ecologisti in politica, spesso mi è capitato di dire che l’ambiente non è un qualcosa che osserviamo come una meta lontana da raggiungere, o una specie di giardino recintato da custodire. L’ambiente è invece quel paio di “occhiali” che ci mettiamo sul naso, e che ci consente di guardare meglio e mettere a fuoco tutte le altre questioni.
Esiste una ecologia della conservazione dell’ecosistema naturale, una ecologia dell’agricoltura e dell’alimentazione, ma esiste – o deve esistere, se come Verdi vogliamo ancora giocare un ruolo nella società – una ecologia del lavoro, una ecologia della giustizia e dei diritti civili, una ecologia della Costituzione, della scuola, della cultura, della pubblica sicurezza, una ecologia dei rapporti tra Nord e Sud del mondo e, perché no, una ecologia dell’industria e della produzione.
Non è un caso se uno dei momenti di maggiore vivacità intellettuale e successo politico dei Verdi in Italia – sia pure con percentuali elettorali mai a doppia cifra – è coinciso proprio con l’impegno del nostro movimento su temi non immediatamente riconducibili all’ambiente, e in particolare sul fronte dei diritti civili, del multiculturalismo, della pace e della tolleranza: penso ovviamente a figure come Adelaide Aglietta e, naturalmente, Alexander Langer.
Questo è il cammino che dobbiamo intraprendere (o forse solo riprendere). Ma – e qui si tratta di compiere un secondo salto culturale – dobbiamo anche chiederci se attualmente possediamo gli strumenti necessari.
Saremmo in grado, nel corso di una discussione, di confrontarci con altri esponenti politici anche sul tema della riforma delle istituzioni europee, e non solo su quello dello smaltimento dei rifiuti? Saremmo capaci di discutere di come la deregulation dei mercati finanziari danneggia l’economia reale e alimenta le crisi economiche? Saremmo capaci, una volta chiamati ad amministrare una Regione o un Comune, di gestire la riconversione di uno stabilimento siderurgico in un polo tecnologico d’avanguardia, creando lavoro pulito ed ecosostenibile per i cittadini?
Perché – mi richiamo alla suggestione di Massimiliano di Giorgio – i Verdi devono diventare “il partito della qualità della vita” , non solo idealmente, ma anche nella capacità di fornire, con competenza, risposte concrete e praticabili.
Occorre dunque superare (non già accantonare) la connotazione puramente etica della proposta politica ecologista: «c’è il rischio (al quale sono esposti non solo movimenti verdi, ma in larga misura anche chiese, sindacati, accademie, istituti, partiti…) o di concentrarsi soltanto su astratti moralismi fatti di impotenti appelli etici (si ricordino il patetico appello di Pertini a proposito dello “svuotare gli arsenali, riempire i granai” o certi appelli generici del Papa sulla bomba atomica), o di accontentarsi di riduttive traduzioni amministrative o tecnocratiche dell’istanza ecologica (…) senza mettere in questione la spirale espansionistica ed orientata al profitto che fa girare il carosello della crescita economica della nostra civiltà in nome del “più veloce, più alto, più grande”» (2).
Ora che l’ambiente è entrato a buon diritto nel dibattito politico italiano come “uno degli interessi”, e che persino il Papa ne parla nell’enciclica Laudato sì, utilizzando le “nostre” parole (3), è necessario andare oltre, e fare dell’ecologia un vero sistema di pensiero, di valori, e soprattutto di proposte pratiche.
Ci diciamo spesso che occorre rendere la conversione ecologica desiderabile, ma siamo poi in grado di tradurre questa idea nella formulazione di analisi competenti della realtà e conseguenti progetti? Perché oggi pressoché ogni cittadino condivide con noi l’idea che sia importante disporre di una buona mobilità pubblica, ma quanti poi ci affiderebbero l’incarico di risanare una azienda di trasporti in crisi?
Siamo – e siamo stati – noi Verdi (non “la sinistra”) in grado di proporre non solo il giusto, ma anche il possibile, e poi di realizzarlo?
E, infine, saremo capaci, in futuro, di attrarre le energie migliori presenti nelle altre tradizioni politiche, che attraversano oggi una crisi di identità forse anche peggiore della nostra? Riusciremo a indicare loro la strada, mostrando che la “casa comune” non va costruita come sommatoria di vecchie idee e vecchie dirigenze, perché questa casa esiste già, ed è verde?
Certo, il miglior momento per piantare un albero era vent’anni fa. Ma Il secondo miglior momento è ora.