Secondo Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute della Columbia University, vede l’Europa come il traino principale per le politiche ambientali mondiali
Jeffrey Sachs, secondo molti, il verosimile ispiratore economico dell’enciclica Laudato si’, riflette sulle politiche ambientali mondiali assegnando un ruolo principale all’Europa che, proprio a causa della – secondo lui momentanea – defezione di Trump, deve agire sempre di più in una direzione di concretezza e di attività nell’ottica di un mondo più sostenibile
Come fa l’Europa a tenere Cina e India nell’accordo sul clima dopo la defezione americana?
«Ha un solo modo: mostrarsi decisa e programmare un serio piano di sviluppo delle rinnovabili, nucleari e non. Non esistono alternative all’azione. C’è l’auto elettrica, per esempio: raccomando ai produttori di quattro ruote, come l’Italia, di mettersi al lavoro perché é è il futuro e lì sono i soldi, solo chi investe nell’auto elettrica resterà sul mercato. Ci sono il solare e l’eolico. E c’è il nucleare, da non demonizzare. D mondo continuerà a guardare al nucleare perché non ha grandi opzioni al carbone. Non aspettiamoci che la Francia dismetta le sue centrali. Cina e Giappone ne creeranno sempre di più. Certo, non tuta sono sulla stessa linea, la Germania va da tempo su una strada verde. Ma l’Europa, finora troppo timida, deve sfruttare il fatto di essere composta da Paesi diversi e lavorare su più piani per avere il massimo spettro di chance energetiche».
Il clima unirà l’Europa cronicamente divisa dall’economia?
«I cambiamenti climatici sono evidenti, il pericolo è tangibile, la scienza è chiara. Vedremo sempre più terremoti, uragani, calamità naturali, le cose peggioreranno prima di migliorare. L’Europa deve accettare che le rinnovabili non bastano da sole a compensare la de-carbonizzazione e deve studiare una strategia diversificata che affianchi per esempio il nucleare francese alle rinnovabili verdi della Germania».
Trump dice di voler rinegoziare Parigi. Come può farlo?
«Non rinegozierà nulla, sono dichiarazioni rivolte all’estero. Internamente ha detto all’industria del petrolio di andare avanti, ha dato il via libera ai suoi elettori contrari a qualsiasi taglio delle emissioni. Vuole guadagnare tempo sul piano diplomatico, ma non ha alcuna intenzione di cambiare la sua posizione. Ed è una posizione irricevibile dagli altri partner internazionali».
Ha senso un accordo sul clima senza gli Stati Uniti?
«Entro 5 anni gli Stati Uniti saranno di nuovo a bordo. Quella di Trump è una decisione politica basata sugli interessi di una minoranza del Paese, la parte che ha finanziato la sua campagna elettorale. Il 70% degli americani è favorevole al taglio delle emissioni, voglio dire che il grosso dell’opinione pubblica rifiuta questa rottura. Se il presidente dovesse evitare l’impeachment non sarà mai rieletto una seconda volta, è impossibile. Il ritorno dell’America nell’accordo di Parigi è questione di tempo e noi ambientalisti che abbiamo perso il primo round non perderemo il secondo».
Pechino sembra nutrire qualche dubbio. Perché la Cina esita?
«La scelta di Trump rallenta le cose ma la direzione è giusta, il mercato cresce, gli Stati Uniti alla fine resteranno soli. La Cina è seria per almeno tre ragioni. Primo: essendo sovrappopolata è estremamente vulnerabile ai mutamenti climatici, ha problemi di approvvigionamento idrico ed è a rischio sicurezza alimentare. Secondo: è molto inquinata e se archivia il carbone le restano solo le energie rinnovabili perché non dispone di gas o petrolio. Infine, è il maggior produttore di gas serra con il 28% delle emissioni globali ed è particolarmente esposta alle pressioni diplomatiche. Pechino non vuole uscire dal mercato globale e non tornerà indietro, resterà in pieno nell’accordo di Parigi».
Dall’Intervista di Francesca Paci su La Stampa del 15 giugno 2017.